Mettere al mondo il mondo

Mario Cresci – fotografo tra i maggiori nella speculazione fotografica concettuale mai fine a sé stessa ma profondamente ancorata all’esperienza storica − ha realizzato un importante lavoro di ricerca fotografica presso l’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione [http://iccd.beniculturali.it/]) di Roma. Cresci ha concentrato la sua attenzione su alcuni reperti scultorei che ha fotografato riproponendoli visivamente non a fini documentaristici o estetizzanti ma come momento di riflessione visiva e intellettuale sull’oggetto in sé, indicativo di suggestioni, messaggi, indicazioni poetiche e filosofiche.
Abbiamo estrapolato dai suoi appunti sul progetto alcuni brani che possano aiutare la lettura di questa complessa e intrigante operazione artistica.
[…] Vi sono almeno due precedenti iniziative che entrano nel merito di questa proposta e che aiutano a comprendere meglio il percorso ideativo che ho messo in atto quando ho potuto riflettere sulla scelta delle fotografie fatta con il solo piacere di farmi prendere dalle immagini senza porre nessun filtro o pregiudizio culturale e senza avere in mente nessun tipo di ricerca prestabilita.
Il primo lavoro che in parte si collega a questo progetto, risale al lontano 1967 con la serie dei “Fotogrammi d’affezione” realizzata a Tricarico sulla base di un particolare ingrandito di un negativo in cui si vede una bambina, colta nell’attimo del suo passaggio nell’obiettivo.
[…] Non ho mai amato la realtà ripresa con lo sguardo del fotoreporter, quel “mordi
e fuggi” del vedere che aumenta l’ansia di cogliere le cose nel minor tempo possibile.
La foto della bambina nasce invece dal caso mentre stavo fotografando l’incrocio di un vicolo del paese mi apparve improvvisa per poi dileguarsi subito nella porta di casa. Forse anche per questa ragione pensai di isolarla come un’icona ad alto contrasto simile a un pictogramma grafico, e di porla in un diverso contesto immaginario in camera oscura.
Da qui, la serie dei Fotogrammi d’affezione che sono ottenuti dal negativo portato al tratto, muovendo la carta fotografica sotto la luce dell’ingranditore. Anche in questo caso la variante dell’incognita dovuta ai movimenti manuali del foglio non garantiva la certezza del risultato finale e ancora una volta il caso entrava nel merito del risultato finale.
[…] E già allora pensai che la fotografia fosse come un grande terreno da coltivare con le più svariate essenze lasciando al tempo della cura l’incognita della loro crescita e maturazione...
Era per me un linguaggio che andava esplorato in tutte le sue declinazioni teoriche e visuali attraverso nuove metodologie molte delle quali acquisite dalla cultura del design che avevo appreso nei tre anni di frequenza al Corso superiore di Industrial Design a Venezia tra il 1963
e il 1967. […]
È in questo ambito culturale e ben lontano dall’ideologia della fotografia dei circoli fotografici italiani presso i quali si sono formate generazioni di fotografi legati per la maggior parte al pensiero e alle immagini di Henri Cartier-Bresson, che iniziano le mie prime sperimentazioni con la fotografia sentita come forma espressiva integrata alle arti contemporanee.
[…] Il secondo precedente è nella serie: “Copia di copia” del 1985 e nel 2006 nominata
“D’après di d’après” su consiglio di Carlo Bertelli che scrisse nel catalogo un testo di presentazione per una mostra alla Galleria Rusconi di Milano. La serie era nata agli inizi degli anni Ottanta a Matera e successivamente rivisitata con stampe al plotter su carta cotone.
Il procedimento del disegno manuale su carta trasparente sovrapposta a immagini fotografiche per me significative sia per gli autori, sia per i soggetti ripresi, era il tentativo di usare la manualità del disegno a ricalco come procedimento di lettura delle singole immagini.
[…] Il disegno, la fotografia, l’arte contemporanea costituivano i miei principali interessi per una continua “ibridazione” dei linguaggi.
In questo senso l’uso del disegno rivolto all’analisi dei dettagli di una fotografia, diventava una proposta o meglio una verifica di quanto io fossi orientato verso una ricerca e un progetto di integrazione delle tecniche e dei linguaggi di rappresentazione in cui il mezzo fotografico si muoveva al loro interno.
Sulla rivista “Alfabeta” dell’ottobre del 1985, Aldo Colonnetti scriveva: “...c’è una doppia lettura da fare: da una parte le immagini fotografiche, scelte da Cresci perché congeniali e affini al suo gusto, “al suo essere fotografo”, dall’altra l’intervento del segno tracciato a mano, riprodotto poi nella fase d’ingrandimento, senza colori né altri artifici grafici. Semplicemente un ripercorrere soggettivo, una reinterpretazione di un fotogramma che è già, a sua volta, una trascrizione della realtà. Da questo punto di vista, sono emblematici gli interventi sulle fotografie di Man Ray, il ritratto di Picasso e quello di Braque, dove il segno manuale di Cresci sembra avere un filo diretto con l’occhio di Man Ray, e non tanto con il risultato fotomeccanico.”
[…] All’ICCD non avevo in mente nessun tema o argomento o storie particolari da ricercare se non quello di lasciare aperte tutte le possibilità dovute a un felice incontro tra me e le antiche fotografie che mi passavano negli occhi a centinaia una dopo l’altra come un fiume in piena. Mi rendevo conto della grande importanza del grande archivio romano in cui mi trovavo e del suo immenso deposito di vite e di memorie che appariva in minima parte al mio sguardo mentre si delineava l’idea di una scelta orientata alla raccolta delle foto dell’archivio di Nunes Vais (Firenze, 16 giugno 1856 – Firenze, 27 gennaio 1932.
Il tema dell’umano e della sua rappresentazione in fotografia ha preso così consistenza mentre guardavo i numerosi ritratti realizzati da Vais a Firenze tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in un epoca in cui, nel capoluogo toscano Eleonora Duse stringeva amicizia con la danzatrice americana Isadora Duncan innamorata di Firenze insieme al suo compagno, lo scenografo inglese Edward Gordon Craig e la pittura di ritratto non era ancora del tutto soppiantata dalla fotografia ma era comunque la medesima che iniziava a fornire i tracciati fisionomici e le posture dei soggetti dipinti che Nunes Vais fotografava nella sua sala di posa.
Ho scelto una serie di fotografie con persone femminili perché ho avuto l’impressione che il suo sguardo sul femminile lo liberasse da certi schemi compositivi della pittura e che il gioco delle luci e delle ombre sui vestiti e le espressioni dei volti con lo sguardo quasi sempre rivolto al fotografo avessero maggiore ricchezza di dettagli e maggiore libertà di posizioni rispetto ai ritratti maschili piuttosto omologati tra di loro.
La prima scelta era quindi rivolta al tema dell’umano al femminile ripreso in fotografia da Vais e successivamente la seconda scelta è stata quella dell’umano visto in alcune sculture di epoca romana alle radici della rappresentazione della figura scolpita dal mondo greco a quello romano in cui il concetto di copia era per la cultura di Roma un grande motivo di conoscenza.
Il procedimento di lavoro che ho adottato è stato molto semplice ed è iniziato dalle immagini ad alta risoluzione dell’ICCD dei soggetti prescelti che ho post prodotto in digitale usando la semplice funzione dei livelli di Photoshop con i quali è possibile ottenere numerosi gradi di trasparenza e sovrapposizione dei toni del bianco e nero.
Ma ancora prima ho dovuto guardare più volte la stessa fotografia prima di decidere le mie scelte formali senza correre il rischio di trasformare la stessa in un’altra immagine lontana dalla sua identità originale.
[…] Segni leggeri e segni pesanti, segni moltiplicati ricavati da un solo o pochi particolari dell’immagine. Segni e forme ricavati dalla stessa immagine che diventano altro, altri segni e altri significati che si svolgono nello spazio della fotografia di base come se questa fosse la fonte di tante altre immagini, altrettanto interessanti nella loro trasformazione geometrica.
E infine, con lo sguardo sul monitor dopo molte ore di osservazione in cui gli occhi stanchi rimandano alla vecchia camera oscura, continuo a pensare che non esiste nessuna verità perché la realtà non è quella che noi vediamo quanto piuttosto quello che noi sentiamo nel trascorrere del tempo e del suo mutare in cui noi ci troviamo coinvolti in ogni attimo, senza certezze e senza verità ma solo in grado di pensare, come scriveva Alighiero Boetti, che gli artisti sono coloro che posso “mettere al mondo il mondo” e aggiungerei anche con l’ausilio di uno sguardo filtrato dal mezzo fotografico. Ce lo ricorda un fotomontaggio degli anni sessanta in cui Alighiero e Boetti camminano insieme verso di noi dandosi la mano...


