Una buona fotografia

«(...) Avevo un rapporto bellissimo con Ugo. Lui era molto generoso, di consigli e di affetto. Ci trovavamo a casa sua con Ferdinando Scianna, entrambi giovani e con poca esperienza, ma avidi di ascoltare i suoi racconti e i suoi consigli. Ricordo una volta in cui Mulas mi mostrava le foto e io, ammirato ed esaltato, non facevo che ripetere: "Bellissimo! Bellissima! Stupenda!". A un certo punto, Ugo mi ha minacciato che se non l'avessi finita di dire che le sue foto erano belle, mi avrebbe cacciato di casa. Io, imbarazzatissimo, risposi che non sapevo cosa avrei potuto dire e lui “devi dire che è una buona fotografia, non una bella fotografia. C'è una differenza enorme. Le belle fotografie sono esteticamente magnifiche ma non dicono niente. Mentre una buona fotografia ha contenuti eccezionali e in questo sta il suo valore“».
In Gianni Berengo Gardin - Inediti (o quasi), Contrasto 2012, pag. 135.

Riporto questo aneddoto raccontato da Gianni Berengo Gardin a proposito del concetto di bellezza di una fotografia: la vulgata comune si serve quasi sempre dell’aggettivo bella per definire il valore positivo di una fotografia. Ugo Mulas faceva notare invece che si deve parlare di buona fotografia se ne vuole esaltare il valore.
Su questa questione – il concetto di buona fotografia − abbiamo chiesto una breve riflessione ad alcuni intellettuali e artisti.

Tra i vari interventi – di Antonio Prete, Francesco Radino, Cristina Casero, Sergio Giusti – della rubrica “Una buona fotografia” presenti nel numero 1 di FC•FOTOGRAFIA E[È] CULTURA pubblichiamo il testo di Sergio Giusti.

La diatriba di cui si nutre questo aneddoto, presuppone delle foto da guardare una per una. Una sola oggi, però, è troppo o troppo poco: l’autosufficienza estetica di una fotografia, anche nel senso etimologico del termine, mi sembra, oggi più che mai, un’astrazione ideale. Sia facendola propendere verso il bello o al contrario verso il buono, sia intrecciando i due concetti con proporzioni variabili secondo le proprie inclinazioni. La fotografia è inserita sempre più in un sistema di relazioni di cui la condivisione in rete ha accelerato e potenziato gli effetti, rendendola molto spesso un messaggio immediato da consumare in tempo reale piuttosto che qualcosa da conservare.
Questa pratica sociale ha per me un riflesso anche in usi più meditati della fotografia: il suo senso risiede non in sé ma nei rapporti che intesse con la ricerca che l’ha fatta scaturire (il che comprende, oltre alla riflessione speculativa, necessariamente altre immagini) e nelle nuove relazioni di pensiero che può indurre in chi la osserva. Ha bisogno cioè di essere contaminata, ibridata, spesso persino abbandonata per linguaggi differenti. In tempi “interessanti” come i nostri, la fotografia deve forse diventare una scusa, quasi un pretesto, uno specchietto per le allodole dotato di memoria RAM. Accessibile, quindi, continuamente modificante e modificabile: una foto-membrana dove il pensiero possa prima di tutto fluire, fuggendo così dalla sicurezza solidificata del buon senso travestito da concetto.

Alfred Stieglitz, The Steerage,1907, Eastman House, Rochester
Eugène Atget, Avenue des Gobelins, 1925, The Museum of Modern Art NY
Margaret Bourke White, Fort Peck, Montana,1936
Frank Eugene, Hortensia, 1898